

P.E.C.c. Le Regole Nascoste della Vita
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E adesso che faccio?
Già, è tutta la vita, ancora giovane per la verità, che mi domando se posso agire o devo aspettare.
Aspettare chi o aspettare cosa, vi chiederete. Bella domanda, me lo chiedo sempre anch’io.
Ma facciamo un passo indietro, magari insieme riusciamo a capirci qualcosa.
Trentanove settimane passate alla grande:
nessun dubbio su chi ero, il primogenito;
nessun dubbio sul sesso: maschio;
nessun dubbio su cosa avrei fatto un giorno: grandi cose…, forse questo pensiero veniva più dai miei genitori che da me.
Comunque, per farla breve, ero pronto al grande salto nel vuoto. Avevo mandato segnali a tutti i miei conoscenti:
“Tenetevi liberi che sto arrivando! Non prendetevi impegni per tale giorno e tale ora".
Sapete come si dice: chi tace acconsente.
E venne il fatidico giorno, ma allo scoccare dell’ora prevista… niente. Non stava succedendo niente, nessun pertugio da cui sbirciare, nessuna luce accecante verso cui andare. Insomma, nessun segno che la festa stava iniziando.
Da qualche parte, avevo sentito parlare di un certo Alì Babà, probabilmente anche lui rinchiuso in un utero come il mio, e che dopo vari tentativi aveva trovato la parolina magica.
“Apriti Sesamo!” urlai, senza sapere cosa stavo dicendo.
Solo scossoni ma niente di più.
Non pensiate che mi sia arreso al primo tentativo, ma più insistevo e più resistenza trovavo.
Per la prima volta ho provato paura: tutte le mie sicurezze e i buoni propositi si stavano sciogliendo come neve al sole (non che a quel tempo sapessi cosa fosse il sole e la neve).
“E adesso che faccio?”
Decisi di aspettare… e aspettare… e aspettare.
E più il tempo passava, più l’ansia e la paura crescevano; l’unica consolazione era che le razioni alimentari non erano state tagliate. Finché c’era cibo, c’era vita.
Una settimana dopo, quando avevo perso quasi tutte le speranze, avvenne il miracolo: le acque si ruppero, la luce oltrepassò il pertugio, grandi scossoni minavano le pareti.
In un istante fu il finimondo!
“E adesso che faccio? Aspetto, ecco che faccio e vediamo che succede.”
Confusi? E come non esserlo. Allora, sembra che una settimana prima il grande capo, esperto di apertura caverne, avesse deciso che non ero abbastanza ammalato per infilare la chiave, tirarmi fuori di lì e affibbiarmi la tessera sanitaria di malato tra i malati. Decisione criptica, per dire che ero ancora troppo sano per farmi uscire dalla caverna. Se questo è il futuro che mi si prospetta, è meglio che ci pensi su prima di diventare adulto.
Consiglio spassionato alle partorienti: se siete sane non andate da lui a farvi visitare!
Insomma, sette giorni dopo, sembra abbia dato il benestare alle operazioni di sminamento e sblocco dell’unica via di uscita.
Dicono che il travaglio fu lungo e faticoso per mia madre, perché non avevo alcuna intenzione di uscire; in fondo, quando ero pronto io non lo erano loro e mentre mi stavo riorganizzando con gli spazi sempre più ristretti, ti arrivano questi e vogliono che tu salti fuori a comando.
“E adesso che faccio? Aspetto, ecco che faccio e vediamo che succede.”
...
Estratto dal libro “Non si sfugge a Sé Stessi”.